di Daniele Urso, De Vinis
peppe-e-manuela.jpgUna giornalista alla ricerca delle antiche uve campane incontra un avvocato con la sua stessa passione.Tra loro sboccia l’amore. Lasciano tutto: la città, il lavoro, le antiche abitudini. E sposano un sogno, fare vino. Non uno qualunque ma quello che il nonno dell’uomo gli faceva assaggiare da bambino. Quello che bevevano, o anche solo ricordavano, i contadini con le mani sporche di terra. La coppia si mette al lavoro,nseguendo profumi e vecchi racconti. La strada verso il successo è lunga, costellata di ostacoli. Servono sudore e lacrime ma lungo il percorso Manuela e Peppe incontrano vecchi e nuovi amici che danno loro una mano. Così, dal sentimento che li unisce germoglia il seme di un’azienda che comincia a farsi conoscere. E che le guide amano. Ce n’è abbastanza per emozionare e commuovere la sala gremita di un cinema. Ma non si tratta di una commedia hollywoodiana sotto il sole della California con Meg Ryan e Tom Hanks. È tutto vero. Ed è tutto italiano, o più precisamente, campano. Manuela Piancastelli, scrittrice e giornalista, ha lasciato il suo lavoro da caporedattore a «Il Mattino» nella redazione di Caserta, per le terre del Volturno. Niente più cronaca, economia e politica. Ora ci sono vigne, viti e vino. Il suo compagno è Peppe Mancini, avvocato. Insieme, nel 2003, hanno messo in piedi a Castel Campagnano, nel Casertano, Terre del Principe, casa vinicola che negli anni ha saputo ritagliarsi un ruolo importante al Sud. Una bella storia con un lieto fine, fare il vino perfetto, che Manuela sta ancora scrivendo.

Una mattina la caporedattrice Piancastelli si sveglia e decide che è il momento di smettere di fare la giornalista e iniziare a produrre vino. Perché?«Da anni ero appassionata di enogastronomia. Ne scrivevo anche sul giornale, sebbene mi occupassi principalmente di cronaca ed economia. Dopo aver fatto l’inviata, nel 1998 mi mandarono a Caserta a capo della redazione locale. Avevo sentito parlare di un signore che cercava varietà autoctone, in particolare il Pallagrello e il Casavecchia. Ma non lo trovavo. Nel 1999 riuscii però a “incastrarlo”. Mediavo un dibattito dove c’era anche Luigi Veronelli, un amico. Lì conobbi Peppe, ci siamo innamorati e da allora non ci siamo più separati».Insieme all’amore sono nati anche vini e un’azienda… «Abbiamo fondato Terre del Principe nel 2003. Peppe, come me, ha lasciato la sua professione e non fa più l’avvocato. Anche per lui la carriera del vignaiolo è nata per gioco. O meglio, per passione. Aveva comprato una casa per il fine settimana fuori da Napoli. Era però legato al mondo del vino e alla campagna. Il nonno di Peppe era un grosso proprietario terriero di Castel di Sasso e il mio compagno ricordava i suoi contadini e la vigna tutta intorno a casa». Come avete iniziato?«Abbiamo trovato incredibilmente delle piante prefilosseriche in una vecchia vigna di una zia di Peppe. Abbiamo piantato le prime barbatelle di Pallagrello e Casavecchia.E abbiamo comprato i primi libri. Roba da “piccolo enologo” e “manuale del cantiniere”. Ci ha dato una mano Angelo Pizzi, un enologo nostro amico. Che però non conosceva queste varietà, quindi poteva darci solo dei consigli generali». Erano così rari Pallagrello e Casavecchia?«Ai tempi le varietà non facevano nemmeno parte del catalogo nazionale. È stata un’opera di “enoarcheologia” che Peppe aveva già cominciato alla fine degli anni Ottanta. Abbiamo dovuto intraprendere una lunga strada.Ci ha aiutato Luigi Moio, responsabile dei vitigni autoctoni per l’Università di Napoli Federico II e per laRegione Campania. Abbiamo fatto le prime microvinificazioni e ora, dopo tanto tempo, queste varietà sono rientrate nel Catalogo nazionale delle uve da vino e nell’Igt Terre del Volturno(è in corso la Doc ndr)».
Perché avete chiamato l’azienda Terre del Principe?«Perché Peppe è il mio Principe. Ricordo ancora quando volevo conquistarlo. Mi ero comprata anche una vignarella,per dimostrargli che ero seria». Non vi manca mai la vecchia vita? Le cause e il tribunale per Peppe e la redazione per te? «No. Amo la scrittura e scrivo ancora. La quotidianità del giornale invece non mi manca. Ognuno di noi vive dei cicli durante la sua esistenza e quello per me era finito: bisognava cambiare. Dico sempre che ho avuto la fortuna di vivere due vite in una».È stato difficile cambiare?«Non è mai semplice. Anche perché lasci un lavoro per cui hai lottato molto. Ma poi si ricomincia una nuova avventura».Cosa ti piace di più di questa nuova vita?«Lavorare a un progetto tutto nostro. E poi, volente o nolente, sono costretta a vivere sotto il cielo. La cosa più bella è la scoperta della pochezza dell’uomo nei confronti della natura. Per esempio, se grandina non puoi farci nulla. L’uva è una cosa viva, può succederle di tutto e questa è una cosa molto “umana”. Erano tutti aspetti della vita che mi mancavano quando vivevo in città, con ritmi molto accelerati. Dentro di me credo di aver sempre amato la campagna ma senza averla mai vissuta».Del lavoro in vigna cosa ami?«Il lavoro del vignaiolo è molto creativo. Devi partire da qualcosa di vivo e incerto come la natura e progettare un vino. Pensando a cosa vuoi regalare agli altri o a te stesso. Ma è difficile: voler fare il miglior vino del mondo
è un po’ come dipingere la Cappella Sistina».E a che punto sei con la tua Cappella Sistina?«Sto cercando di fare il miglior vino per me. Ogni anno aggiungo un piccolo tassello al mosaico. Non so se riuscirò mai a produrlo.È una ricerca infinita, anche perché con il tempo modifica il mio senso del gusto e potrebbe cambiare ciò che definisco “migliore”».Come deve essere un grande vino?«Per me un grande vino deve saper raccontare Moltissime cose senza che nessunoparli. Raccontare della terra e del produttore.Dare emozioni. Ed essere capace di dire cose che nonsiano state già dette. Un grande vino dà sensazioni uniche,non ripetibili nemmeno da se stesso. Sul colore non sono razzista. Mi piacciono molto i bianchi come Le Sèrole, Pallagrello bianco, passato in barrique.Complesso, elegante, fine, molto emozionante. Tra i nostri rossi il Vigna Piancastelli, nato dal primo terreno preso quando ho conosciuto Peppe. È fatto con Pallagrello nero e Casavecchia e ricorda l’Amarone, un vino che amo molto. Ha morbidezza, personalità, eleganza e struttura. Sono i vini che bevo con più gioia e che assomigliano a me». Che cosa raccontano del Casertano uve come Pallagrello nero, Pallagrello bianco e Casavecchia?«Sono uve coltivabili in undici comuni e hanno una personalità fortissima. Il Pallagrello bianco ha morbidezza ed eleganza, con un acino piccolo, delicato e fragile. Il Pallagrello nero è un po’ più “sbalestrato” ma ha eleganza straordinaria e tannini setosi. Piacevole, ma austero, come un bel signore di campagna. Il Casavecchia invece è più rustico ma al naso sprigiona profumi forti di sottobosco, piccoli frutti rossi e viola. Sono uve con poco acido malico e fanno vini più pronti di un Aglianico. Sono vitigni che raccontano moltodi questa zona, dei suoi terreni particolari, delle arenarie.Sono uve sane grazie al clima ventilato e che soloqui possono crescere bene». Che cosa sono i vitigni autoctoni per l’Italia? «Una grande ricchezza. Tutto il mondo fa ottimi vini e ormai non deteniamo più il primato. Però l’Italia ha una storia enoica che nessuno può copiare. Siamo in grado di affrontare più sfide, fatte anche di piccole produzioni. Nel nostro Paese c’è una base ampelografica tale che ci permette di presentarci all’estero in modo unico. Perché se è vero che da una parte il mondo si globalizza, è anche vero che si cercano peculiarità. Non è però facile far conoscere questi vini. È necessario lavorare molto per raccontarli a persone che non sanno nemmeno dove sia la Campania». Ci sono stati momenti difficili in questi anni? «Tanti. Spesso la gente non capisce gli sforzi che stai facendo: lavori duro per la tua azienda ma anche per il territorio. Per farlo crescere. In dieci anni questa zona ha cambiato faccia. Si vedono ovunque vigne e agriturismo nuovi». Anche con l’amministrazione pubblica non sono sempre state rose e fiori… «Due anni fa, mentre compivamo molti sforzi per certificare la Doc, abbiamo ricevuto una multa perché sulle nostre bottiglie riportavamo il nome Pallagrello. Non era mai stata fatta una modifica a un vecchio comma anacronistico di una legge che ci avrebbe consentito di mantenere la nostra etichetta. Abbiamo pagato la multa, poi però ho fatto fuoco e fiamme!». Dura lex sed lex (dura legge, ma una legge), dicevano i latini. «Noi andiamo ovunque per conto della regione Campania a raccontare questo territorio. Ma poi lo stesso Ministero delle Politiche agricole che ha conferito premi a me e a Peppe, ci manda la repressione frodi… È stata una battaglia ma nel giro di due mesi hanno modificato la norma». Luigi Veronelli diceva comunque che “a legge iniqua non bisogna obbedire”.
È più difficile lavorare in Campania che altrove? «Certo. In Campania siamo partiti tardi e facciamo fatica, mentre le altre regioni hanno avuto il tempo di “fare sistema”. Qui non c’è un consorzio ed è difficile interloquire con gli enti pubblici. Anche per colpa nostra, perché abbiamo capito tardi che il vino è una cosa seria. C’è una grande frantumazione delle proprietà agricole. La nostra vigna, per esempio, è di undici ettari e ci sono aziende che ne hanno due o tre. Ci sono grandi etichette, come Mastroberardino, che hanno salvato l’immagine della Campania ma non hanno fatto sistema. Anche Feudi San Gregorio ha lavorato pro domo sua. Le istituzioni invece devono investire ancora molto sul territorio. Serve una consapevolezza che in Campania non c’è. Solo da dieci anni la Regione si presenta al Vinitaly. Il Sud poi sconta anche tanti problemi di incapacità politica, che non ci sono altrove. Alcuni nati anche dal malaffare».Quanto vi sentire indietro rispetto alle zone enologiche più conosciute?«Rispetto ad alcune regioni ci sono due secoli di differenza. Qui il territorio lo abbiamo sempre depredato. La campagna campana potrebbe dare da vivere a tutti mas olo da poco si sta cominciando a capirlo. E i danni sono stati già fatti: la provincia di Caserta per tre quarti èdevastata dall’abusivismo». Che cosa vi manca? «Gli interlocutori all’altezza. Non abbiamo assessori che vengono da percorsi legati all’ambiente. Questi processi evolutivi sono comunque lenti e non ci sono scorciatoie. Prima bisogna diffondere la cultura,premiando e sostenendo chi voglia difendere l’ambiente. Poi ci vuole una classe politica forte e consapevole, che abbatta le case abusive e blocchi il boom edilizio». Sotto l’amarezza sento forse ardere l’orgoglio? «Sono molto orgogliosa di fare parte di questa sfida. Orgogliosa della mia città. A Napoli, in Campania, non ci sono solo problemi ma anche una possente forza e creatività. Ci sono energia e positività che ci permettono di sopravvivere. E noi siamo un manipolo di pazzi che va in giro per il mondo a raccontare quanto è bella questa terra. Non ci sono solo “munnezza” e camorra. L’Alto Casertano comunque è un territorio fortunato, molto bello e pulito. Fuori da tanti dei problemi noti». Propositi per questo 2010? «Potenziare l’enoturismo, comunicare con gioia il piacere dell’ospitalità. Abbiamo aperto un piccolo bed and wine. Vengono clienti dappertutto: arrivano perché amano i nostri vini e vogliono conoscerci. Ci piace mangiare con loro e fargli conoscere la nostra terra». Una parola per riassumere la tua avventura? «Amore. Tutta questa avventura, la nostra azienda, i vini nascono dal sentimento che unisce me e Peppe. Mi piacerebbe tanto che i vini comunicassero questa emozione attraverso sapori e profumi». E che profumo ha l’amore? «Scoprilo aprendo un nostro vino».

Fonte: De Vinis