Di Mauro Illiano

Nell’atto di curare l’ennesima Capitale del Gusto, mi è parso doveroso un pensiero in favore della Nuova Zelanda, unita alla nostra Nazione da un gemellaggio climatico, nonché mai tanto vicina a noi come in questi giorni. Mentre io scrivo, infatti, vele e catamarani si contendono il panorama di Napoli, e il mio pensier non può fingere di non essere attratto dall’idea che lo stesso vento che consente loro di fendere lo spazio, potrebbe condurre i nostri palati verso la terra dei Maori e dei velisti.

Oggi è tempo di grandi viaggi, oggi è la volta di Napier.

Un’unghia di terra benedetta dalla natura vive distante dodici ore di sole dalle nostre teste. Piccole baie, uguali solo a sé stesse, difendono le terra da due mari impetuosi, che nel separare il nord dal sud si incontrano nello stretto di Cook. E venti portentosi, e fiabesche vallate, ed alberi secolari rendono questa terra lo scenario ideale di una vita ultraumana.

Dai picchi innevati del Ruapehu alle ardenti acque sulfuree di Rotorua, dalle serpeggianti vie costiere del Coromandel  alle placide distese di fiori del Tongariro. La Nuova Zelanda, Aotearoa, risponde alla voce della perfezione, e nel farlo non usa alcun inganno e non concede all’uomo alcuna manovra di chirurgia, poiché tale fu il suo destino sin dal principio:  l’esser bella nella sua semplicità, incarnando il più grande parco nazionale al mondo.

In essa un luogo brilla un po’ di più, un forziere ricco di sapori e storie insolite, una cittadina adagiata sulla Hawke Bay e dominata dalla Bluff Hill, in cui la cucina di mare del Sud del Pacifico incontra le più tipiche preparazioni di carne, e piatti dai colori insoliti fungono da scenario ad una gastronomia sconosciuta eppure sbalorditiva. No, non è l’eden, è Napier.

Passeggiando amenamente per uno dei tanti Organic Markets della cittadina è possibile udire il canto del makomako, e mentre il passo incalza nessun occhio potrebbe ignorare la perfezione ed il profumo di uno dei signori incontrastati dell’orto Neozelandese, il signor Kiwi. Eppur banal non è l’atto di sceglierne il tipo, dato che non è dato all’occhio comune il distinguerne la tipica versione zuccherina, da un’altra gemma denominata Tomarillos, eguale solo nel corpo, ma non nella sostanza, dato che in realtà è un pomodoro da albero.

Insoliti frutti della passione riempiono cassettine graziosamente sistemate a scaletta, ed oli di avocado fanno capolino al fianco dei più comuni estratti d’oliva. Ma non si è sazi di imparare nuove forme di vegetali, così, dirigendosi alla sezione Maori del mercato, c’è tempo per mettere nel sacco una patata kumara (patata dolce), oppure dei piko piko (radici di felce commestibili), o, ancora, meravigliosi Horopito (peperoncini). Tuttavia, non tutto è poi così esotico, basta dare uno sguardo per capire che il Kawakawa altro non è che gigantesco basilico.

Due arterie, Hasting St. ed Emerson St., segnano la parte più vivace della piccola città, addobbata finemente con fioriere e maioliche in tinta tra loro. In esse si affacciano  ristoranti in stile francese, che propongono piatti della Regione rivisitati. Leccornia delle leccornie della East Coast sono, senza dubbio, le Green Mussels (Cozze guscio verde), giganteschi mitili serviti con una crema calda di latte. In esse il sapore dell’Oceano Pacifico e la dolcezza dei pascoli di Taupo. E poi ancora mare, con strepitosi Kina (ricci di mare), Paua (orecchie di mare), o croccanti Karengo (tipo di alga indigena), a rendere unici banchetti su cui poter assaporare i migliori Sauvignon Blanc del Nuovo Mondo, capolavori di Marloborough o Martinborough, in cui note di maracuja fanno compagnia a sentori di capsico e uva spina. Per i più longevi c’è ancora spazio per le imperdibili ostriche di Bluff, un Toheroa (crostaceo tipico) o degli strepitosi White Bait (bianchetti) a chiudere, il tutto insaporito con Kelp Salt (sale) all’aroma di limo o chili.

Non è ancora ora di abbandonare la mensa, o, perlomeno, non prima di una degna chiusura, segnata dall’ultima portata, il Pav  (dessert a base meringa, crema e kiwi), accompagnato dal profumatissimo caffè di Kerikeri.

Ai non amanti della cucina marinara è dato il ventaglio di opportunità offerto da una natura terriera altrettanto ricca. Su tutte le carni spicca quella d’agnello, che a mio avviso non ha eguali sul nostro pianeta. Provare un Hogget (arrosto di agnello) oppure una preparazione in un Hangi (forno Maori scavato nella terra) con costolette adagiate su foglie di Manuka (pianticella simile a quella del tè) è la miglior risposta ad un palato che intenda ammainare la vela e far ritorno in terra. Si cambi il vino, per carità.  Eppure in ciò non si casca male, poiché sapienti mani lavorano Pinot Noir di fine eleganza, in cui frutti a bacca rossa si spostano dal naso al palato con incredibile agilità. Ed il connubio genera dipendenza.

Il vento soffia furioso dalla baia dell’abbondanza a quella di Hawke, e il primo sole del nuovo giorno accarezza la punta fredda del faro di East Cape, una corrente scappata alla quiete affronta la costa, e sotto gli occhi increduli di un leone di mare uomini in preda a un’innata passione volteggiano tra oceano e cielo. Non un rumore si ode sul rantolo della risacca. Il tempo passa, e mentre le ombre si allungano il sole rintana, la tormenta si fa brezza, e le pinne all’orizzonte son ora visibili come vele ferme. E’ sera.

Di tutte le parole dedicate a questa Terra amo le seguenti:

Che le nostre montagne esistano sempre, i bastioni della liberta sul mare”*

*Tratta da God Defend New Zealand, inno nazionale neozelandese

*Photo America’s Cup di Paolo Liggeri