Di Mauro Erro

Il primo passo per ogni grande sapere è sapere di non sapere”. Ho voluto iniziare con il pensiero di una mente illuminata qual’era quella di Tiziano Terzani sperando che questo scritto non sia solo un resoconto di una serata, ma spunto di riflessione che possa spingervi, attraverso i commenti, a contestare, approfondire, argomentare ciò che andrò a scrivere. Quando pensai insieme a Fabio Cimmino e Tommaso Luongo a questo Enolaboratorio, proposi l’idea di un percorso didattico (ed edonistico) che vedesse da un lato la proposta di sentieri enoici poco battuti (per vitigno, filosofia di produzione, zona, ecc.), dall’altro, il tentativo di approntare un linguaggio che evitasse ogni tecnicismo esasperato e si proponesse una nuova via: una tavola rotonda che mediante la condivisione mirasse al raggiungimento di una oggettività di giudizio del gusto attraverso il confronto delle differenze e delle posizioni soggettive. Chi mi conosce sa che sono allergico a qualsiasi forma pseudo-scientifica che tenti di legiferare sulle relazioni fruitive con il mondo della bellezza e del vino: ciò che si dimentica è che si beve (e si degusta) attraverso i sensi, e che la ragione, la razionalità ed i parametri che fissiamo, sono solo il tentativo di tradurre il piacere per comunicarlo, e lo sforzo di interrogarci sugli elementi che lo hanno provocato: la ragione consiste “nella capacità di distinguerle e separarle tutte(le sensazioni, n.d.a), per riferire a ciascuna il piacere che le è proprio e per non attribuirlo a una causa che non l’ha prodotto”*. Una nuova idea estetica ed etica del vino. La serata che ha visto protagonista il Cirò Riserva Ripe del Falco è stata, tra le altre, la più stimolante. Sul vino dirò poco, lasciando che leggiate le note concise ma significative che troverete alla fine, scritte da Luigi Metropoli, critico di poesia e wine-writer del sito Enodelirio. Mi limiterò dicendovi che, come spesso accade, il vino è stato capace di rimettere in discussione la mia (come quella di altri) opinione, nel momento in cui il 1991, fino a qualche giorno fa il mio preferito, è stato “surclassato” dal “nebbioleggiante” 1987, vino d’altri tempi, 21 anni e non li dimostrava, tempi in cui la fermentazione a temperatura controllata non veniva effettuata (il titolo della serata, “il vino vecchio è buono”, mai fu più azzeccato). Mi concentrerò, invece, sugli spunti casualmente venuti fuori, sull’approccio del degustatore.
Nella mia esperienza di bevute con degustatori più o meno esperti ho rilevato sempre con maggiore frequenza quello che io chiamo “il morbo dell’angelo della morte”. La voglia compulsiva e maniacale di vivisezionare in parti infinitesimali il vino, senza riuscire a coglierlo come un tutt’uno, discernendo fino ai dettagli più irrilevanti. Morbo che solitamente si accompagna alla caratteristica di molti degustatori di cercare prima i difetti che non i pregi di un vino capovolgendo il momento della degustazione come ben detto da Fabio Rizzari – curatore con Ernesto Gentili della guida de L’Espresso – intervistato da Luciano Pignataro (leggi qui) “da Gino Veronelli tutti noi abbiamo imparato che il buon critico, e il buon bevitore, prima cerca i pregi in un vino, e poi gli eventuali difetti”. Non vado oltre, anche se gli spunti di questa serata sono stati tanti e tali che occorrerebbero altri due articoli: dalla messa in discussione da parte di Vincenzo Ippolito – enologo dell’azienda, gradita sorpresa dell’ultima ora – dell’esame visivo definito inutile, ad alcune riflessioni scaturite dal testo che Michela Guadagno ha portato con sè di Daniele Cernilli, Memorie di un assaggiatore di vini. Spero che ci sarà modo di parlarne prossimamente.
Vi lascio, però, con alcune parole estremamente intelligenti scritte da Guelfo Magrini, giornalista enogastronomico toscano, estratte da un suo articolo, “Gli incazzati del vino”:Vogliamo rilevare che, purtroppo, con sempre maggiore frequenza, più l’individuo ne sa di vino e più i suoi comportamenti risultano segnati da un complesso di alterazioni che non riescono ad essere descritte efficacemente utilizzando le parole inserite nei dizionari di medicina. Insomma sta accadendo che più è grande la conoscenza del vino e più il detentore di questa conoscenza diventa “stronzo”. […]
Tornando al vino, l’alterazione che più spesso caratterizza chi comincia a conoscerne i rudimenti è quella di non sopportare quanto di sbagliato può accompagnare il vino stesso. Ora, se conoscere di più il vino vuole dire non goderne più perché la temperatura è più alta o più bassa di qualche grado, perché il bicchiere non è quello dalla forma perfetta, perché l’abbinamento con il cibo non è quello giusto, allora l’aver acquisito maggiore conoscenza ha portato inevitabilmente ad un abbassamento del livello di felicità che il vino stesso può potenzialmente dare a chi lo beve. Conoscere il vino serve solo a ricavare un piacere maggiore, dai grandi vini come da quelli di consumo quotidiano. E magari ad evitare i dispiaceri che molti vini-trappola ci servono spesso in calici scintillanti.
Un vecchio proverbio siciliano recita “cummannari è megghiu di futtiri”. Sarà vero, ma è certo che quello che l’ha scritto non ha mai saputo quanto è bello “futtiri” e quanta felicità può dare a se’ e a gli altri”.

1987: è, sulle prime, il più brillante tra i 4 campioni in degustazione: evoluto, in una parabola che lo condurrà ad una lunga, splendida vecchiaia. Colore dal fascino decadente, granato non molto compatto, evidenzia un corpo sottile e solo apparentemente esile. Al naso vive su note terziarie, appena accarezzate da un frutto ancora vivo: visciola, amarena, che lasciano spazio ad una predominante liquirizia. In bocca è inaspettatamente il più fresco e vibrante, complesso, non presenta alcol sopra le righe, sorprendendo per reattività, con un tannino ancora indomito. Lungo e asciutto. Cala dopo qualche tempo nel bicchiere.

1988:è il più taciturno e il più restio ad esprimersi. In tutte le caratteristiche rispecchia l’87, ma è decisamente meno brillante e reattivo, più spento ai profumi e con un tannino troppo sopra le righe. Si spegne troppo presto. Verosimilmente non avrà molto altro da dire: il tempo lo ha cristallizzato in una scorbutica mutezza che resterà tale.

1989: è il primo campione realizzato con un processo di fermentazione a temperatura controllata. Colore evoluto che lo apparenta all’88 e all’87. Estratti bassi, come i campioni precedenti. Al naso si esprime con intensità e finezza: idrocarburi e liquirizia, con tocchi di cuoio e un frutto ancora accennato (nonostante i 18 anni compiuti). In bocca è il più rilassato e compiuto. È, tra i 4, il preferito del dott. Vincenzo Ippolito. Resiste bene nel bicchiere.

1991: una delle due bottiglie denuncia vistosi problemi di riduzione. Anche l’altra tuttavia divide la sala. Il colore è più fitto e gli estratti sono maggiori. È diverso da tutti gli altri. Vincenzo Ippolito non parla di cambio di stile, ma affidandosi alla memoria ipotizza, nel taglio, una percentuale maggiore di legno. Il vino impiega molto più tempo ad aprirsi: all’olfatto è scomposto sulle prime, per poi trovare una sua definizione in un frutto maturo ed eleganti toni terziari. La bocca però riesce solo in parte a comunicare un’avvenuta fusione tra le parti. Potrebbe evolvere ancora…

Hanno amabilmente colloquiato tra loro: Adele Chiagano, Fabio Cimmino, Salvatore Di Carluccio, Massimiliano Discepola, Mauro Erro, Roberto Erro, Lina Esposito, Bruno Gaeta, Michela Guadagno, Vincenzo Ippolito, Tommaso Luongo, Massimiliano Mari, Luigi Metropoli, Livio Siciliani, Claudio Tenuta.

*Cfr. D’Alembert alla voce “Gusto” dell’Encyclopédie.