Una serata che ha decisamente entusiasmato i partecipanti almeno a  giudicare dall’affollamento mediatico della blogosfera! Per adesso…(qui) e (qui)

 

“A Napoli sfilano cinque Pinot Noir” Di Luigi Metropoli

 

pinotnoirdegustazione.jpgL’estrema parcellizzazione del territorio borgognone, il numero elevato di produttori che v’insiste (e di conseguenza la difficile reperibilità delle singole etichette, in tiratura sempre limitatissima), la variabilità delle caratteristiche pedoclimatiche tra ogni minimo fazzoletto di terra (anche a breve distanza uno dall’altro), l’anarchia stilistica che caratterizza gli interpreti, rendono impossibile stabilire misure e parametri affidabili. L’esplorazione, dunque, dei vini di Borgogna resta un’avventura che si rinnova ad ogni assaggio: imprevedibile, avvincente. Se a ciò si aggiunge l’anima irrequieta del pinot noir, vitigno-totem dell’inassoggettabilità, sfuggente e refrattario a qualsivoglia classificazione, allora ci si rende conto di quanto sia arduo catalogare ciò che per natura non è catalogabile.
Ogni vino nato da quel territorio, da quel vitigno, è, senza retorica, un unicum. Nella sfilata di denominazioni che va dai village ai gran cru (questi ultimi in una percentuale considerevolmente ridotta rispetto alla produzione totale) ci si ritrova di fronte a vini differentissimi tra loro. Naturalmente ciò investe anche la variabilità qualitativa delle bottiglie, sia in ragione dei differenti cru e terroir, sia della mano dei vigneron, che delle condizioni climatiche, qui più che altrove in grado di ledere molto facilmente l’anima sottile e delicata dell’uva pinot noir, contraddistinta da una certa fragilità e intolleranza alla mutabilità atmosferica. Se la bassa percentuale di 1er cru e gran cru può essere garanzia di maggiore qualità, bisogna fare i conti con questi altri parametri sopraelencati, i quali concorrono, per giunta, a costituire una bussola impazzita del listino prezzi: per bere davvero bene, all’altezza della fama di questi prodotti, purtroppo bisogna spendere molto.
Il pinot noir è un vino che non ostenta, bensì sussurra, non è potente né imponente, ma vive di sfumature, non rinunciando tuttavia ad imporre una precisa, grande personalità. Va accolto con garbo e apertura, per intendere la sua eleganza sottile e femminea.
Questa breve introduzione è inevitabile prima di passare ai 5 vini assaggiati. È inevitabile perché il pinot noir è spiazzante, infinitamente cangiante e dai mille volti.
Ciò che ho cercato dall’assaggio di 5 vini molto diversi tra loro (per produttore e territorio), presso l’enoteca Divino In Vigna, è un denominatore comune, al di là della già troppo chiacchierata eleganza, tratto peculiare del vitigno. Se non una metafisica ricerca della verità e un teoretico inseguire l’identità, almeno cercare di cogliere un quid riconoscibile in ciò che si cela per sua natura. Credo che questo si possa almeno individuare nel frutto dei 5 campioni: ciliegia e frutti di bosco che delineano l’aspetto gentile del vino-vitigno. Ciò che non è mai uguale a se stessa è la striatura minerale di ogni singolo bicchiere, conseguenza (e qui possiamo dirlo senza tema di essere smentiti) dei differenti terroir oltre che dalla declinazione datagli da mano diverse.
Tutti i campioni sono figli di un’annata non facile per i vigneron della Côte d’Or: la 2004. La freschezza e la bevibilità sono le note positive che, a priori, delineano ogni bicchiere.

Morey Saint Denis Clos Solon 2004 – Fourrier:
Colore rubino brillante e trasparente. Al naso è il più diretto: frutto pieno e prevaricante, godibile ora, senza particolari nuance che gli conferissero una gran complessità: lampone, ciliegia, note di tostatura. Tuttavia questa semplicità lo renderebbe particolarmente duttile col cibo. Al palato sorprende un’acidità pungente, appena fuori registro e discorde dal naso dolce, facendolo rapidamente recedere.
Vosne-Romanee 2004 – Mugneret Gibourg:
Che a Vosne Romanée tutto ruoti quasi esclusivamente intorno ai gran cru lo si può immaginare. Questo village infatti finisce con l’essere il più “povero” dei 5 vini in degustazione. All’aspetto è molto prossimo al precedente. Al naso è impreciso, con frutto in primo piano e venature vegetali. Al palato è meno dinamico, in una sorta di limbo che non lo vede schierato né dalla parte della sottigliezza, né da quella della complessità. Chiude troppo frettoloso. Lieviti indigeni.
Volnay Santenots 1er Cru 2004 – Roble Monnet:
Da Volnay questo biodinamico che già agli occhi esibisce un abbigliamento diverso dagli altri: più cupo e carico nel suo rubino. Nel bicchiere è la quintessenza della mutevolezza. Meno preciso al naso sulle prime (vagamente animale), vive di un corredo fruttato intenso, sottobosco e una ricchezza di sfumature che vira verso la mediterraneità. All’improvviso esplode in note di caffè e carrubo, per poi chiudersi in un silenzio solo passeggero. Si aprirà su nuance minerali e sfumature terziarie che gli conferiscono un bonus di complessità Al palato è reattivo, appena più caldo degli altri, ma non per questo più scontato. Se non è del tutto equilibrato è di sicuro il più originale dei 5.
Gevrey Chambertin 1er Cru Petite Chapelle 2004- Rossignol-Trapet:
Bello nella sua veste rubino intenso, è al naso che affascina per precisione e ricchezza di sfumature: una volta ossigenato vive su una balsamicità freschissima (menta, anice stellato), con ritorni di sottobosco ed erbe. In bocca è rilassato, ma complesso, stratificato, e di buon equilibrio tra il tono carezzevole e le percettibili acidità e mineralità: è imprevedibile da metà lingua in avanti, dove avanza come una risacca che rinnova le sue onde. È il preferito della sala.
Pommard 1er Cru Les Rugiens 2004 – Voillot:
Il più trasparente, a dispetto della fama dei Pommard che attribuisce loro la palma dei più “bordolesi” tra i borgognoni. L’architettura, tuttavia, smentisce il visivo. Già al naso, infatti, è tremendamente sui generis e più austero: dopo un’acidità volatile che incupisce il registro, va definendosi un frutto che trascina una striatura ferrosa: dalla ruggine all’emoglobina, in seguito accompagnate da toni balsamici. Vive sul minerale, ma sconta la sua giovinezza specialmente al palato, dove il tannino si mostra ancora asciugante e l’acidità è ancora indomita. Chiude sfumando, ma anche questo potrebbe essere un peccato di gioventù. È il più difficile e austero, da risentire negli anni, ma forse per questo il più emozionante.