Di Luca Massimo Bolondi

La terra parla, e lo fa per bocca dell’uomo. Spesso parla in modo oscuro, frammentario, difficile da comprendere. Talvolta trova le parole giuste, percorrendo una via diretta che dal suolo si eleva, si fa strada dapprima nel cuore per giungere poi alla mente e articolarsi in prosa. Ciò avviene quando la natura e i suoli e l’opera dell’uomo dialogano senza conflitto, quando la sapienza pratica della popolazione lavora con la terra, conoscendola e rispettandola, e questo lascia segni visibili anche se nascosti. Quale che sia il contesto: rurale, urbano, naturale (se ha un senso parlare di naturalità in un mondo che ovunque deve fare i conti con la presenza umana), il paesaggio è sempre la manifestazione sensibile degli ecosistemi, capace di generare emozioni nell’animo sensibile e conoscenza nell’intelletto cercatore.
Emozione e conoscenza possono andare insieme, e lo fanno nelle migliori occasioni, per esempio nel racconto di un uomo che ama una terra difficile e prodiga con chi sa lavorarci. Un racconto così ha allietato la Cantina dei Sogni, all’Hotel Romeo, in Napoli, di venerdì 17 aprile, eppoi dicono che porta male… Un racconto talmente intenso da tenere quaranta ascoltatori attenti e muti per più di due ore. Una comunicazione di calde e partecipi emozioni perché Armando Castagno, relatore, nell’Alto Piemonte ha le sue profonde familiari radici. Una comunicazione di valore per la conoscenza perché approfondita nell’analisi geologica, ampelografica, sociologica, enologica, economica, letteraria. Ecco il concetto di terroir comprendere anche i contadini e i vignaioli, finalmente, perché il genius loci vitivinicolo non ha senso se esclude la vita e le opere delle persone. Armando sin dalle prime parole cattura e riempie la nostra attenzione: “forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate” (Italo Calvino, le Città Invisibili) poiché “anche nel mondo del vino esistono territori invisibili, lontani dalle guide, dai premi e dalle classifiche, ma vicini alla grande dignità spennellata di genio di seri e onesti produttori” (Armando Castagno, musica per le mie orecchie).

Foto di Paride CimbaloIl racconto porta gli ascoltatori in un angolo di terra pedemontana geograficamente alla stessa latitudine di Bordeaux e geologicamente speciale come lo è anche la Borgogna, vocata al nebbiolo in un vigneto che in cento anni è stato abbandonato per emigrazione industriale riducendosi da quarantaduemila a meno di mille ettari, dove il bosco è tornato a fare da padrone, incoltivabile altrimenti, con i suoi 30 centimetri di humus labilmente abbarbicato su un immenso banco di roccia composita, solcata dallo Scrivia, un torrente capriccioso che alterna secche a piene talvolta devastanti. Territori variatissimi dove in pochi chilometri s’alternano banchi di porfido, terrazze moreniche, loess e sabbie acide, dove il geologo scopre un luccicante terreno di quarzo rosa e dall’acidità superiore all’aceto (a Boca) o rocce friabili dai colori violenti e ferrigni (a Gattinara), terre dalle quali l’enologo sa che potrà venire un vino profumato e longevo. Dove pochi vignaioli restano, nascosti custodi di un patrimonio che solo ora riscopriamo ma che troviamo intatto nello spirito di molte pagine di Cesare Pavese. Lavorare stanca, soprattutto se la vigna è in rittochino (filari lungo la linea di pendenza) su di un ronco (la lunga scarpata tra due pianori, frutto del ritiro di ghiacciai preistorici). Armando Castagno condivide i suoi luoghi con quaranta napoletani affascinati, attenti e critici. La conoscenza è partecipazione viva, solo così si impara davvero.
La terra parla, per bocca dei suoi figli che hanno la dote di saperla comunicare agli altri. Guarda caso, nei luoghi dove la terra è più ingrata e complicata, laddove le vicende umane si svolgono con più amore, che può voler dire cura e rispetto, ma anche sofferenza e fatica, proprio là brillano i migliori gioielli esemplari dei frutti che la terra può dare. I quaranta napoletani alla Cantina dei Sogni hanno appreso cose nuove, e dopo due ore di ascolto hanno anche provato, insieme, il vino di Boca, di Bramaterra, di Fara, di Lessona, di Gattinara e di Ghemme, sei gemme dure e preziose, che lasciano il segno, che provocano emozioni e stimolano il confronto. Sei calici di una versione austera del nebbiolo, accomunati da una mineralità pietrosa e aromi vasti assai. Bottiglie che valgono la fatica della ricerca negli scaffali nascosti, nelle enoteche. Le nuove generazioni di produttori, che stanno sostituendo gli anziani e pian piano recuperando terreno vitato al bosco, sono innovatori ma attenti a cogliere il meglio che la tradizione locale può dare, dai cultivar storici alla valorizzazione dei siti alle pratiche di podere, perché in vigna veritas. Il futuro del terroir alto-piemontese darà loro ragione?