Di Franco De Luca

cappero-1.JPGÈ più forte di me, non ce la faccio… avevo deciso, dopo una primavera intensa, di staccarmi per un po’ dal mondo del vino, di rifugiarmi in un’isola semideserta per non pensare più a ciò che aveva quasi esclusivamente colonizzato la mia mente per diversi mesi. Avevo scelto le isole Tremiti per trascorrere una vacanza all’insegna del mare e del relax, in vista di un ottobre rosso che si profilava sia all’università che nell’AIS. Avevo insomma, come si suol dire, provato a “staccare la spina” per un po’ di tempo ma già dal primo giorno di vacanza in uno dei due market di San Domino la mia attenzione è stata rapita da una curiosa frase: “solo qui si vendono gli autentici capperi delle Tremiti”. Gli autentici? Che vuol dire, che esistono anche quelli falsi? E dove li fanno, nella Duchesca? E che hanno di particolare i capperi delle Tremiti per giustificare l’esistenza anche di quelli “pezzotti”? Lentamente ha cominciato a venir fuori il carabiniere che è in me ed è iniziata la mia indagine sotto al sole.
Pare che i capperi delle tremiti esistano davvero ma in quantità tanto modeste da non poter soddisfare l’incessante richiesta dei vacanzieri “ben informati”… allora ho cercato una talpa, qualcuno che potesse fare un po’ di luce su questo mistero estivo, questo giallo da ombrellone. Tanino è il finto nome del mio informatore, uno cuoco eccellente di cui non posso dire di più per rispettare la sua riservatezza. Tanino, dopo alcuni giorni, quando avevo ormai conquistato la sua fiducia, mi ha detto: “la maggior parte dei capperi spacciati per tremitani in realtà provengono da Rodi Garganico e sono come tutti i capperi del mondo”, poi si è avvicinato con aria di complicità e mi ha fatto: “i veri capperi delle Tremiti li tiene solo Felicella”. A queste parole le mie gambe hanno preso a tremare, i tremitani residenti ne saranno si e no una settantina, quante Felicella possono esserci? Io d’altra parte alloggiavo proprio presso la pensione “Felicella”, vuoi vedere che mi è capitata un’inaspettata botta di… fortuna? Il giorno dopo ho atteso la donna senza scendere al mare, facevo finta di niente, lei ha sui sessant’anni ed è una donna molto gentile, troppo gentile per non essere anche collaborativa, leggevo il giornale sul terrazzino con fare indifferente… quando è arrivata per un po’ abbiamo parlato del più e del meno, poi le ho chiesto a bruciapelo “Felicella, cosa è questa storia del cappero”. Lei si è bloccata mentre infilava il cuscino nella federa, ha guardato fisso in avanti e senza voltare lo sguardo mi ha risposto: “chi ve lo ha detto?”, “non importa” le ho fatto io risoluto come poche volte nella mia vita, “li devo assolutamente provare!”. Felicella mi ha così raccontato tutto per poi regalarmene un vasetto. Ecco una classica storia italiana, una “storia del cappero”, appunto.
Ho scoperto che nelle Tremiti ci sono in effetti capperi eccellenti che crescono sulle rocce calcaree a pochi metri dal mare, salatissimi e saporiti, più piccoli della norma e capaci di aromatizzare le pietanze nel rapporto di 1 a 3 rispetto a quelli comuni. Ho scoperto che però non ci sono coltivazioni, crescono spontaneamente un po’ ovunque e che i migliori provengono dalla selvaggia e disabitata isola di Caprara dove però la raccolta è vietata. Ho scoperto, quindi, che esiste un commercio sommerso, non autorizzato, dei capperi delle Tremiti, che la richiesta da parte degli incuriositi turisti è di anno in anno e sempre maggiore ma che essi acquistano un articolo privo di ogni garanzia, sia in relazione all’autenticità che all’integrità. Allora mi sono chiesto: come mai non esiste un prodotto confezionato, garantito, distribuito e promosso di questo alimento? Come mai gli enti territoriali ed in particolare l’ente Parco del Gargano (che comprende l’arcipelago) non ha negli anni sfornato un’azione di marketing che alimentasse maggiormente una macchina turistica un po’ desueta e lenta, ma comunque fonte unica di questo desolato territorio?
Ma la mia indagine mi ha portato ad una scoperta ancora più incredibile e che ci riguarda maggiormente da vicino. Ho scoperto che in epoca fascista un certo Mussolini voleva sfruttare le particolari condizioni pedoclimatiche delle isole Diomedee per creare una eccellenza enologica. Esse sono infatti costituite da terreni calcarei, ghiaiosi e poco sciolti (roccia madre affiorante quasi ovunque), con un clima caratterizzato da abbondanza di sole, precipitazioni misurate, ventilazione costante e, di conseguenza, una umidità contenuta tutto l’anno. A tale scopo venne incaricato un giovanissimo agronomo pugliese, tale Vincenzo Vespucci, a cui fu affidato un terreno piano (altopiano centrale dell’isola di San Domino, la maggiore delle tre) sul quale venne poi innestata una vigna con tre tipologie di uva: Montepulciano, Trebbiano e Malvasia. Purtroppo però l’agronomo aveva altri progetti e, pur portando avanti l’impegno assunto, si dedicò fondamentalmente all’altro suo scopo della sua vita che era quello di diventare un armatore e di occuparsi dei collegamenti delle isole con la terra ferma, all’epoca quasi inesistenti. Da quel momento cominciarono i guai di Vespucci il quale finì in rovina poco prima di finire definitivamente. La vigna adesso esiste ancora, mi ci sono trovato per caso tra grappoli rossi e maturi un pomeriggio che salivo dalle scomodissime (ma bellissime) cale. Attualmente essa è gestita dal figlio di Vincenzo che almeno alla vista sembra tenerla viva e vegeta, ma anche in questo caso, come per il cappero, il vino viene prodotto esclusivamente ad uso e consumo di una cerchia ristretta di amicizie trasversali, costituita da alcuni residenti e dai pochi continentali fortunati (o sfortunati, non mi fu dato sapere).
A questo punto ho cercato di capire insieme ai miei nuovi amici indigeni le ragioni di tanto spreco, ma sia Tanino lo chef “anonimo” che Felicella l’albergatrice mi hanno raccontato la solita storia, quella che caratterizza il nostro paese, quella che sentiamo tante volte ma alla quale mai riusciamo (per fortuna) ad abituarci. Il sindaco (quasi sempre lo stesso dal “miocene medio” ad oggi, da quando cioè le isole sono emerse) viene eletto con una maggioranza che si raggiunge facilmente con poco più di quaranta voti, questo vuol dire che se due o tre famiglie si muovono in blocco possono decidere il bello ed il cattivo tempo sull’arcipelago. Questo vuol dire anche che se queste persone curano i propri interessi con un’ottica miope nessuno mai proverà a costruire una struttura per lavorazione e la manipolazione del prodotto di base, che si tratti di capperi, vino, limoni o altro ancora, al fine di completare una filiera che al momento è ferma alla raccolta furtiva ed illegale di eccellenze impareggiabili. Pare anche che tentativi in tal senso da parte di qualche giovane intraprendente siano stati tempestivamente sabotati dalla “banda dalla vista corta”… è la solita storia, è la storia del cappero, è l’ennesima testimonianza di quanto siamo bravi ad accontentarci di essere mediocri “imbroglioncelli” quando potremmo invece essere i custodi di patrimoni di bellezza e particolarità incommensurabili. Io un mare così bello non l’ho visto mai, le serate a cena da Tanino mi resteranno nel cuore, lui, Felicella e qualcun altro compensano con la loro straordinaria umanità aspetti meno felici che caratterizzano molte città del sud. Mi vengono in mente le parole di Raffaele La Capria quando dice, più o meno, che se molti dei nostri luoghi del sud non hanno smesso di esistere è solo grazie alla capacità che hanno avuto negli anni di creare delle sacche di cultura ed umanità che in qualche modo sono riuscite ad equilibrare quelle forze negative che non mancano mai in quei posti che sono stati baciati dalla natura.
Speriamo solo che col tempo anche chi non ha la mia fortuna, possa avere il suo barattolino di capperi delle tremiti… originali!