di Luca Massimo Bolondi

La diapositiva mostra in calzoni corti un corpulento rubizzo cinquantenne dal volto rustico e aperto, alle spalle una vigna ordinata come la cameretta di un bambino svizzero e soleggiata come quella di un bambino napoletano. È Jean Pierre Charlot, dal cui Domaine Joseph Voillot provengono le bottiglie che, in filare composto e pulito come la di lui vigna, sorridono dal fondo della sala. Siamo quarantaquattro fortunati al cospetto di Giancarlo Marino, ospiti dell’Hotel Romeo, partecipi della prima della Cantina dei Sogni. Quanta roba, meglio spiegarsi e con ordine. Con ordine inverso a quello di apparizione.
La Cantina dei Sogni: un progetto di Mauro Erro e Tommaso Luongo, stasera alla sua prima pietra. A giudicare dalle fondazioni possiamo aspettarci un edificio pieno delle vitruviane qualità. Firmitas, ovvero permanenza nel tempo sia in termini di durata del ciclo di incontri che del segno che potranno lasciare nei partecipanti. Utilitas, dato il profilo dei conduttori chiamati all’incontro con sommelier assetati di conoscenza quali siamo. Venustas, per la beltà totale dell’evento nella scelta dei vini protagonisti, nella disposizione della sala e nell’impeccabile servizio AIS Napoli, nell’organizzazione, e per la beltà della location…
L’ Hotel Romeo: dallo sgraziato palazzone della redazione di uno sfortunato giornale napoletano ecco sorgere un lucente esempio di architettura contemporanea non originalissimo nella vetrosa facciata ma sorprendente per l’eleganza, la grazia e il connubio di tecnologia e arte che ti accolgono appena varcata la soglia. Un raro caso di edificio bello di sera come di giorno, quando i giochi di luce lasciano il posto al fascino della materia plasmata. Scelta da sommelier.
Giancarlo Marino: avvocato penalista, si riscatta toccando sublimi vette di intendimento nel Bourgogne; ne parla con la naturalezza e la confidenza di uno di casa che conosce e sottace i litigi in famiglia quando ne parla con amici, trasmettendo il calore dell’affetto per un terroir esperito e conosciuto sino all’appartenenza onoraria. Magnifico il candore con cui afferma “attenti amici miei che senza conoscenza è facile, in Borgogna, bere vino non buono…”, nella cornice di una lectio magistralis che alla temperatura espositiva non sacrifica la precisione e la profondità dell’argomentare, che lascia spazio al confronto, che consente alla sala di affrontare la degustazione con le informazioni e lo spirito giusti.
Le bottiglie: a dimostrazione che grandi virtù possono affrontare a testa alta gli schiaffi del tempo senza ecchimosi, ecco sei esempi di Volnay Premier Cru destinati a lasciare un piacevole segno. E qui, signori, lasciatemi essere partigiano fazioso e de gustibus disputans alla faccia della diplomazia dicendo la mia. Mi si perdoni de lo tranciar giudizio ma a tal cospetto m’aggia levà lo sfizio. Cinque annate di Bourgogne affermate e giudicabili più una di Pinot Noir promettente ma ancora apprendista. Anche qui presento a ritroso. 2005, un giovine porporino già messo in vendita ma vocato a una lunga attesa per dare il suo meglio; iperbolico ai sensi, carico di frutta piaciona figlia di una marcata dominanza varietale, stimola la domanda “saranno famosi?” 1999, come un attore della Comédie Francaise, offre una interpretazione quasi perfetta di aromi secchi intensi e finissimi al naso, pieni e lunghi alla bocca, se ho ben capito la lezione qui abbiam la quintessenza del borgognone. 1991, annata freddina, vino color granato intenso e vivo, adulto e raffinato, in bocca caldo e fiorito, ai sensi armonico ed etereo, non entusiasma ma persuade. 1990, annata calduccia da cui un vino color granato più smorto, duro e alcolico, una cenerentola un po’ scontrosa dagli aromi depressi ma al palato vivace.1983, un purosangue stile Varenne; avanti con gli anni ma gagliardo, aranciato ma brillante, inquieto nel calice nonostante i sentori terziari di campo di equitazione e lavori stradali; una sorpresa che sarebbe bello poter rivivere nonostante sia una bottiglia quasi introvabile. 1971 (oui, elle ha bien compri…), anche se nonostante le ottime precauzioni in stappatura al naso offre solo un lievissimo agrume, la latitanza olfattiva è compensata dalla pimpanza al palato; durezze e alcool capaci ancora di giocare a guardie e ladri a tutto beneficio del degustatore; la sensazione di “abbiamo già dato” fa per una volta rimpiangere il non essere nati prima, cresciuti prima, sommelierizzati prima. Nota finale: le annate dal 1995 in poi sono frutto del lavoro di Jean Pierre Charlot che, cognato succeduto a Joseph Voillot, ha introdotto in vinificazione la macerazione prefermentativa e ha eliminato la filtrazione; il cambio di stile si sente ma non troppo.
Il Domaine Joseph Voillot è la sala parto di siffatte creature; si può male ma bene letteralmente tradurre “il dominio” perché in Borgogna, che Tommaso Luongo ha definito terra di eleganza, semplicità e complessità insieme, le vigne sono piccole e ognuna offre caratteri pedoclimatici e ampelografici diversi. Veniamo a sapere che la rete stradale quasi corrisponde a un reticolo di partizioni geologiche, coi confini tra poderi somiglianti a confini tra zolle continentali e le famiglie di contadini a ceppi antropologici diversi.
Jean Pierre Charlot, infine, il villain immortalato sotto il sole delle sue terre, incarna l’immagine di semplicità e complessità unite. Giancarlo Marino racconta di un produttore semplice nei modi ma ricco di esperienza, di tecnica, di sapere di vigna. Capace di allevare, svezzare e offrire in bottiglia un succo di Borgogna che laurea il gusto ad honorem. Proviamone ancora…[I sogni continuano ad Aprile con Armando Castagno e l’Alt(r)o Piemonte T.L.].