di Franco De Luca

C’è un triangolo di terra che sporge in fondo alla Calabria, il triangolo isoscele della provincia di Vibo Valentia che ha per estremi di base Pizzo Calabro e Rosarno e come vertice in mezzo al mare il luogo continentale più vicino alle isole Eolie, Capo Vaticano. Questo curioso bernoccolo dello “stivale” presenta un clima assolutamente particolare, direi quasi equatoriale, esso è infatti caratterizzato da precipitazioni molto copiose nella stagione invernale e praticamente nulle da maggio a novembre. I terreni sono arenari, friabili, porosi ed il cocktail clima-terra rende il suolo franoso ed instabile. Ogni anno a Tropea manca un pezzo, in viaggio sulla Salerno-Reggio c’è sempre tanto tempo per giocare ed è divertente chiedersi “chissà se troviamo ancora la casa…”, le indicazioni non dovrebbero indicare TROPEA bensì TROPEA?.

Tuttavia, questa composizione pedo-climatica tanto particolare rappresenta l’habitat ideale di alcune specie botaniche, come il Ficus Benjamin e Magnolioides. Se ne vedono in giro degli esemplari straordinari, alcuni addirittura di oltre 100 anni, con la caratteristica chioma che si sviluppa in orizzontale e dalla quale nascono delle appendici frondose che scendono verso la terra provando a ricongiungersi al suolo per soddisfare esigenze di sostegno ed alimentazione, creando così nuove radici e generando dei “tronchi” paralleli e delle meravigliose gallerie vegetali (sono presenti in realtà in tutto il sud, tra gli esemplari più belli ricordiamo quello nel duomo di Monreale ed il plurisecolare dell’orto botanico di Palermo (foto), uno di età più giovane vegeta presso i giardini del Palazzo Reale a Napoli). Inoltre abbiamo, tra la flora edibile, che a noi più interessa, i fichi d’India di Capo Vaticano, la cipolla di Tropea, la patata di Mesiano, il porcino nero di Arena e di Dasà e gli spettacolari legumi di Caria.

I legumi di Caria sono in realtà soltanto fagioli e ceci, in questa zona infatti non sono invece di grande qualità le lenticchie o i piselli, adatti a terreni maggiormente umidi e compatti. Essi hanno sempre rappresentato una parte fondamentale del bottino da portare a Napoli a fine vacanza da parte della mia famiglia, insieme al peperoncino, alla ‘nduja di Spilinga, all’amaro del capo, alla citata cipolla ed alla melanzana tunisina (che però adesso si trova ovunque). Per capire bene la particolarità di questi legumi cominciamo col dire due parole sugli “ortaggi a seme” in generale. Noi italiani li conosciamo bene perché ne consumiamo un bel po’ . Essi, insieme alla carne, costituivano cibo quasi esclusivo in Europa nei tempi antecedenti la scoperta dell’America, prima cioè che arrivassero i pomodori, le melanzane, i peperoni ecc… Attualmente rappresentano, in ogni caso, tra gli alimenti fondamentali della “dieta mediterranea”. Bisogna però ricordare che tutti i legumi, senza alcuna eccezione ma in misura assai diversa, contengono sostanze antinutrizionali di natura tuttavia termolabile, che si possono cioè eliminare con la cottura, questa è la ragione per cui soltanto alcune tipologie possono consumarsi fresche o addirittura crude (piselli, fave, ecc.) mentre per la maggior parte e consigliabile l’essicazione. I legumi secchi presentano un quadro nutritivo molto interessante: in media abbiamo dal 30 al 50% di zuccheri , dal 2 al 18% di grassi (solo l’arachide rappresenta un picco del 45%), dal 15 al 30% di proteine e dal 2 al 6% di ceneri (fosforo, potassio ecc.), oltre a vitamine varie, un po’ d’acqua e molta fibra. Insomma, possiamo dire che i legumi, consumati insieme ai cereali, rappresentano un alimento quanto mai completo, oltre che equilibrato e gustosissimo, l’importante è che essi siano di buona qualità. Abbiamo detto la parola magica: “qualità”, ma quand’è che un legume è di qualità? Perché le lenticchie di Castelluccio o di Altamura o quelle di Mormanno sono migliori delle altre? Ed i piselli di Miradolo? Cos’hanno di speciale i fagioli di Sorama, o quelli di Sarconi? Per rispondere a questa domanda non c’è testo migliore dell’esperienza di uno chef, uno che oltre a conoscere il territorio ci possa spiegare le ragioni che possono nascere in cucina per scegliere una tipologia piuttosto che un’altra. Io ne ho trovato uno assai speciale che vi presento adesso… ma non è stato affatto facile.

Sono passati 5 anni dal giorno in cui ho scoperto Frammichè. Ero in vacanza, nel pieno di uno degli ultimi scatti d’orgoglio che ci spinge ad imprese tanto sensazionali quanto massacranti come girare l’intera provincia di Vibo in bici, con lo scopo apparente di ricercare in maniera “sportiva” news eno-gastronomiche da comunicare agli amici, quello vero di dimostrare a se stessi di essere ancora giovani, “per non voler ammettere di aver perduto” cantavano Lucio Dalla e Gianni Morandi, ed ammettere anche che da un certo momento in poi le novità è meglio scoprirle a tavola, possibilmente seduti, comodamente. Comunque, quel giorno di 5 anni fa, in un bar dove mi ero fermato per riprendermi da un imminente svenimento, nel bel mezzo dell’entroterra calabrese, mi viene indicato questo posto, nella campagna della periferia del capoluogo di provincia, precisamente lungo l’interminabile SS18 “Tirrenia Inferiore” (il prolungamento, in pratica, di via Marina) in corrispondenza della frazione di Mesiano. Da allora non passo a 100km da quel posto senza fermarmi a salutare il patron, ed a mangiare, naturalmente. L’uomo in questione si chiama Franco Pagano, una persona di grande carattere ma anche timida ed introversa, testardo nel voler portare avanti il suo progetto di qualità infischiandosene dei numeri ed anche dell’etichetta, uno che bada a fare star bene i suoi clienti, per nulla esoso, assolutamente generoso. Strappare però una “chiacchierata” a Franco sul suo lavoro è stata un’impresa più difficile della pedalata che c’è voluta per scovarlo. È una di quelle persone che preferisce alla comunicazione canonica altre forme più introspettive, non verbali, come preparare manicaretti squisiti nella sua cucina. Il giorno del primo incontro ero con una mia amica, Franco mi servì delle fettuccine fatte in casa (che lì si chiamano lasagnette) con caprino disciolto, grani di pepe nero e fave, poi si mise da lontano ad osservare. Lui avrà pensato che io mangiassi lentamente per degustare meglio, da bravo sommelier, in realtà io avevo difficoltà nei movimenti perché davanti a quella unione così perfetta di elementi io mi sentivo un intruso, nel mio piatto gli ingredienti facevano l’amore ed io intimidito cercavo di dare il minor fastidio possibile. Assaporavo e per ogni boccone rendevo grazie non so esattamente a chi. Come quando finisci un bel libro e ti ritrovi con lo sguardo impallato nel vuoto o a baciare la copertina in un gesto involontario (forse sono stranezze solo mie), quel giorno avrei baciato tutti quelli che incontravo. Ma questo non è l’unico piatto a procurare questi effetti, degni di nota sono anche gli spaghettoni al pomodorino e pistacchi di Bronte, Filej con fiori di zucca e crema di fagioli, le polpette di carne al finocchietto, per non parlare del ragù e della qualità della carne preparata quasi esclusivamente alla brace. La cosa che però sorprende maggiormente di questo ristorante sono certamente gli antipasti a base esclusivamente di verdure dei famosi legumi.

Nei piatti che compongono i numerosi assaggi troviamo almeno tre tipologie di Fagioli: la Spagnola, grosso e pastoso, sodo e servito con peperoni, i borlotti comuni e la curiosa “fagiola al burro” (foto). Quest’ultima tipologia è un tipo di canellino che si scioglie in bocca e che si presta a preparazioni di succulenti creme di accompagnamento. I ceci invece sono piccoli e sodi (foto), conservano una ottima compattezza dopo la cottura e si prestano anche bene a farinate. Franco mi racconta che la qualità dei legumi dipende fondamentalmente dalla loro buccia. È risaputo che la cottura, in qualunque modo essa avvenga, modifica irreversibilmente gli alimenti a discapito dei principi nutritivi termolabili, proteine e vitamine vanno facilmente a farsi benedire. D’altra parte però, a causa degli elementi antinutrizionali citati in precedenza e presenti un po’ in tutti i vegetali, anche per i legumi secchi è indispensabile raggiungere un livello di esposizione alle alte temperatura per favorirne la digeribilità. Nel caso dei legumi è la pellicola che riveste i semi il vero problema… la natura l’ha creata per difendere questi dai parassiti e dalle larve, ma se è troppo spessa, troppo resistente, diventa la causa principale della bassa digeribilità. I legumi di qualità sono proprio quelli che hanno una buccia che fa bene il suo lavoro durante tutto il ciclo vegetativo, ma che si sa far da parte una volta che siamo in cucina, cedendo a brevi cotture e consentendo di preservare in questo modo tutta la ricchezza mineraria, proteica, vitaminica e, naturalmente, organolettica del legume. Franco quindi mi spiega che questa è la condizione “necessaria” per la qualità e vale per tutte le tipologie ma non è ovviamente anche “sufficiente”. L’intensità e la persistenza gustativa, la caratterizzazione territoriale, la delicatezza dell’aroma e la riconoscibilità del sapore fanno il resto. Mi spiega che in tutta la provincia , a causa delle particolari condizioni ambientali, i prodotti della terra sono ricchi di zuccheri e di minerali. Con un certo orgoglio mi dice: “i nostri fagioli, oltre ad avere la buccia sottile, sono tra i più saporiti d’Italia” e noi non possiamo dargli torto.

Franco è tra i pochi ristoratori calabresi che non prepara pesce, “se si vuole servire carne e pesce ci vogliono due cucine differenti”, sostiene. Io non lo so se ha torto o ha ragione ma apprezzo chi ha il coraggio di proporre le cose che conosce meglio, chi non insegue i gusti delle masse di vacanzieri ma che anzi all’occorrenza si propone educatore degli stessi verso altri percorsi culinari più coerenti e non meno interessanti, ergendosi a guida del proprio territorio, della cultura gastronomica della terra natia, in maniera semplice e nello stesso tempo elaborata. In ogni caso, per questo tipo di pietanze più terragnole non vediamo bene i vini bianchi. Contestualmente a quanto appena asserito l’indigeno Gaglioppo sarebbe quello che ci vuole ma la cantina del suo ristorante è comunque abbastanza fornita, contiene diverse etichette, moltissime siciliane e campane, tante altre nazionali, poche internazionali. Franco però è duro ed insiste a proporre il “suo” vino locale, su questo ovviamente non possiamo essere molto in accordo, tuttavia io lo assaggio e lo apprezzo, è notevole per essere artigianale e glielo riconosco, peccato che l’eventuale qualità non possa essere anche garantita, ma prendo spunto da questo per una riflessione che vi sottopongo: chissà se le stesse ragioni che hanno fatto restare un po’ indietro la regione per la produzione dei vini di qualità, non siano esse stesse causa di un perfezionamento, un affinamento della produzione “fai da te”. Raramente, infatti, avevo incontrato una tale limpidezza e pulizia, un bouquet così ampio ed un gusto tanto intenso ed equilibrato in un vino fatto in casa. Speriamo in ogni caso che, in relazione ai vini, anche per la Calabria continui l’ascesa verso la qualità che ha caratterizzato negli ultimi anni le altre sorelle regioni del sud.

E le stelle? Mi direte, cosa c’entrano le stelle… le stelle c’entrano, perché sono il miracolo dimenticato che abbiamo ogni sera sulle nostre teste e di cui magari ce ne ricordiamo quando andiamo a riprendere l’auto nei parcheggi dei ristoranti, come è successo a me nel parcheggio di Frammichè. Nella buia campagna calabra, senza inquinamento luminoso, ho visto la Via Lattea, Orione, Cassiopea, il gran carro che tramonta mentre il piccolo sorge con la sua stella polare, come forse non li avevo mai visti. Sono rimasto imbambolato con le chiavi in mano a chiedermi cosa mi impedisce di ricercare più spesso nella natura certe emozioni, di volgere maggiormente l’attenzione verso l’”alto” prendendo maggiore distanza dalla volgarità che impregna la nostra vita quotidiana… allora mi è tornato in mente un aforisma di Wilde che lessi qualche anno fa e che intendo adesso, in calce a questo report, quale augurio alla evoluzione personale di ognuno di noi: “siamo tutti nati nel fango, ma alcuni guardano le stelle”. Saluti.