Di Luca Massimo Bolondi

Quando squillava il telefono, e sul display compariva il nome del suo caposervizio, Giulio sorrideva come un gatto: si annunciava una opportunità di lavoro, ovvero esperienza più guadagno. Quando venne la chiamata per una riunione urgente, grande fu quindi l’aspettativa. Da membro del gruppo di servizio dell’Associazione Italiana Sommelier, Giulio era abituato alle convocazioni dell’ultimo minuto. Si incontrarono in cinque, più il caposervizio, nella hall di un grande albergo, per la breve spiegazione che si sarebbe iniziato un esperimento, tre giorni alla settimana per un mese, l’introduzione del sommelier nella grande distribuzione commerciale, un’attività che al nord del paese non era più una novità mentre al sud adesso avrebbe mosso i primi passi. Un incontro con facce perplesse, molta curiosità ma tutto un soppesare i pro e i contro, disagi e opportunità immaginati, tutti da verificare. Ma se non si va non si vede, quindi accettarono.

Gedeone sommelier di professione, esperto per età e per tradizione, membro anziano e oggetto di culto per Giulio, sentendo il suo racconto sentenziò: ecco un’altra moda, che porterà una nobile arte a scadere ancora di più, sempre più vicino a far del sommelier un cameriere venditore, un operaio del vino. Questo commento colpì Giulio, che riponeva grande fiducia nel suo collega, e gli diede da pensare. Era lui a peccare di ingenuità o il collega agitava un pregiudizio? Intanto, venne il tempo delle decisioni.

A Giulio toccò in sorte un ipermercato alla periferia della metropoli, ancora in città ma lungo uno stradone di tir e pendolari, zona industriale in declino, tanti capannoni di commercio cinese all’ingrosso. Sommelier in un ipermercato, come dire un sacerdote allo stadio. Giulio era un buon comunicatore, era il suo lavoro da trent’anni, e sommelier per passione; aveva avuto assegnato un elegante box proprio all’ingresso, dove tutti devono passare, con le bottiglie ben in mostra e la direttiva di unire degustazione e promozione vendite. Non che la cosa gli dispiacesse, però non aveva chiaro come e quanto dosare questi due aspetti del lavoro, non solo far conoscere e apprezzare i vini, l’attività elettiva del sommelier, ma anche quantificare i risultati nella vendita, tante bottiglie in tanti carrelli della spesa, come l’addetto della casa vinicola sponsor dell’esperimento ribadì insistentemente.
Al termine della prima settimana Giulio aveva chiari i pro e i contro. I pro rappresentati dalla soddisfazione per i risultati raggiunti, più alcune occasioni di incontro e colloquio; i contro furono la frustrazione di sentirsi un ingranaggio in un motore, una bruciante spersonalizzazione, il sacrificio delle doti umane nel tempio delle merci, nei momenti di affollamento il suo ruolo ridotto a quello di un promotore di bevande alcoliche, in un alternarsi di contatti fugaci a raffica e poi, nelle ore morte, un senso di spaventapasseri in un campo mietuto e abbandonato. Giulio si disse ora e mai più, ho visto quello che c’era da vedere, ho capito quello che c’era da capire.

Gedeone era già pronto con un sorriso ironico e un bel “te l’avevo detto” da sparare sul muso. Giulio invece era infastidito e perplesso, perché aveva sperimentato una cosa nuova e gli sembrava, in parte a ragione e in parte a istinto, che vi fosse dell’altro oltre a ciò che aveva toccato con mano. Furono giorni di interminabili discussioni tra loro, sul ruolo del sommelier, sul valore del tenersi al passo coi tempi, sul futuro, terminate il più delle volte da un “vedremo”.

Venne la fine di novembre e il telefono squillò ed era il caposervizio ed era anche una riunione, e una nuova proposta per il periodo pre-natalizio. Una piccola catena di supermercati di quartiere, nella zona borghese della città, sulla collina. Alla riunione i pro e i contro già sperimentati ebbero il loro peso, ma la situazione aveva connotati diversi e Giulio si fece persuaso che valesse l’impegno affrontarla. Il sopralluogo rivelò che, dove possibile, la direzione aveva ristrutturato i punti vendita dotandoli di un’enoteca vera, non semplici scaffali, un luogo accogliente, legno e luci calde, un banco d’assaggio, un’offerta di vini che andavano dal tetrapak allo champagne blasonato. Ma, soprattutto, personale sveglio, affiatato e disponibile ai banchi dell’ortolano, del salumiere, del macellaio: la sfida a un gioco insieme, di gruppo. Giulio si chiese dove fosse celata la fregatura, perché un percorso che appare liscio prepara sempre un tranello. Cominciò. Ben presto si accorse che i clienti del supermercato a lui assegnato erano più o meno il vicinato, sempre gli stessi, e che dopo il primo approccio, formalmente cordiale, l’incontrarsi tendeva a creare confidenza. Molte volte si giocò a lo-provi-poi-torna-e-mi-dice, e il ritorno fu occasione di commento insieme. L’uniforme di servizio, il rito della degustazione, le prove di abbinamento insieme al salumiere e al macellaio, cominciarono a comporre un gioco di avvicinamento dove tutti avevano da imparare qualcosa dagli altri. L’esperimento fu un successo e dopo il natale la proprietà decise di estendere la collaborazione all’anno intero.
Nonostante svolgesse il suo servizio in cinque supermercati diversi, uno ad ogni fine settimana, a rotazione, Giulio sentì crescere la familiarità nel lavoro, ecco, più o meno così deve sentirsi il negoziante di vicinato, che conosce le abitudini e i gusti dei suoi clienti, che partecipa della vita del quartiere. Un giorno passò per l’enoteca una signora giovane e fine, dallo sguardo triste e dai modi gentili, col figlio in età scolare, un ragazzino dal viso serio anche quando rideva e dallo sguardo dolce e vivo. Antonio. Curiosità aguzza e voracità inesauribile, due lati complementari dello stesso carattere, si presentò da solo e si avventò sugli stuzzichini che ornavano il banco per invogliare al vino. A Giulio piacquero dal primo istante, la madre così riservata, il figlio educato e insaziabile. Ascoltò esterrefatto il racconto di Antonio che, in vacanza in Portogallo l’estate scorsa, aveva trascinato la mamma in una visita tra Vila Nova de Gaia e Oporto per conoscere le tradizioni del vino Porto, e naturalmente degustarlo. Solo che Antonio aveva dieci anni, e solo ora andava per gli undici. Tutto coerente però, visto che in occasioni successive trovò Antonio che scrutava le confezioni di shampoo e di creme, facendo notare che solo poche etichette portano la dicitura “dermatologicamente testato”, ovvero, spiegava, non sono stati condotti test su animali prima di avviarne la produzione. Giulio commise un gesto imperdonabile per un sommelier serio: con poche gocce di vino nel calice, iniziò Antonio alle regole della degustazione.

Gedeone non litigò con Giulio, semplicemente smise di discutere con lui. A Giulio la mancanza del collega dispiacque. Perché sottrarsi al confronto? Nell’ultima discussione, Gedeone sosteneva che solo svolgendo servizi adeguati si può essere davvero sommelier. Per Giulio questo significava solo appartenere alla casta degli eletti. Ah, la belle epoque di grandi marche degustate sotto un cielo stellato michelin, servite dal sommelier di bordo di un transatlantico dei giorni appena passati… e Giulio pensava al Titanic e ad altri esempi recenti.

Giulio decise che l’esperienza di quei mesi nella veste più aperta e socializzante della comunicazione della conoscenza del mangiare e bere bene fosse da trasmettere a quanti più colleghi possibile. Pazienza, se qualcuno avesse assunto una veste critica, tanto meglio, se non si dialoga non si cresce, ci si chiude… Si estinsero in un clima mondiale che si riscaldava mentre l’economia mondiale si raffreddava, i vinosauri. Stretti in livree culturali sempre più demodè, testimoni di un era di sacre libagioni, celebrate in club esclusivi e prefetture di capoluoghi. Mastodonti ipertrofici, convinti di poter accumulare in un solo corpo lo scibile enoico, semplicemente non videro il mutamento. E il mutamento li fossilizzò.