Di Mauro Illiano

In un punto apparentemente insignificante del nostro mondo, su di una ruga di terra slanciata verso il mare, vive una comunità di uomini dediti alla pesca. In preda al vento ed alle onde, spiagge povere di tecnologia e ricche di umanità, vedono bimbi sfidarsi in giochi incomprensibili tra carcasse di crostacei e pellicani. Una sula dai piedi blu, scappata dall’Isla de la Plata, rammenta all’occhio di un passante la latitudine di quella terra estrema, ed una schiera di amache agganciate a pali instabili offrono riposo alle schiene degli autisti di Jipijapa o Guayaquil.

Una sola lingua di terra, lunga meno di un chilometro, ed una ragnatela di strade a tre quadranti, segnano i confini di questo piccolo capolavoro di esotismo, quadro perfetto e malinconico che porta il nome di Puerto Lopez.

L’intero universo di questa cittadina è racchiuso nei pochi metri che separano Calle Garcia Moreno dall’Oceano Pacifico e dal Malecòn Julio Izurieta.

Tre isolati, tre strade, tre destini. E quello che il volgo moderno ha imparato a chiamare Terzo Mondo, appare in tutta la sua primordialità più pura ed integra. Donne chine e scottate dal sole raccolgono i risultati di un anno di semina, e bimbi forzuti mettono ordine nei porcili di casa. Anziani sdentati osservano i giorni passare dall’uscio delle loro dimore. Gli uomini vivono in mare, in balia delle correnti ad aspettare che le reti si riempiano.

Ogni giorno, all’alba, la stessa trama di barche riunite al molo. Ogni sera, al tramonto, la stessa scia di cormorani a far da nuvola ai pescherecci di ritorno.

Dei tanti doni mancati a questa terra di fame e miseria, almeno uno è stato recapitato dal Divino: la migliore cucina dell’intero Ecuador.

Così, Comedores (ristoranti economici), bancarelle e Cevicherìas (ristoranti di pesce specializzati in cevìche), si contano a decine sulla strada che più intimamente dialoga col mare. Avamposti ancestrali fatti di pavimenti in cemento e sedute di fortuna, pali di palma a sorreggere tetti forati dal sole, e tavolini perennemente instabili ad ospitare piatti dal profumo oceanico.

Menu malamente stampati e immancabilmente unti, svelano al viandante meraviglie inattese. Come il famoso Chupe de Camarones (zuppa con patate, latte, gamberetti essiccati, peperoncino e uova), o il paradisiaco Encocado (preparazione a base di crostacei e latte di cocco). Profumi giungenti dalla calle (strada) sembrano suggerire ai commensali i piatti da scegliere. Così, se il vento soffia da ovest, è più probabile che gli indugi siano rotti in favore di un Cevìche Mixto (pesce crudo marinato e speziato), o una zuppa di Centollas (granchi); mentre se sono i venti Andini a soffiare da est, si sarà più portati ad ordinare Humitas (preparato con farina di granoturco, cipolle, peperoni dolci, spezie e formaggio, avvolti in una loppa e cotti in acqua e latte), Llapingachos (patate schiacciate con formaggio cotti in forno), o magari una Sopa de bolas de verde (zuppa di arachidi con polpette di banane da legume).

Piatti importanti e piccoli spuntini riempiono giornate aride di avvenimenti. Sopas, Locros, Sancochos e Secos (tipi di stufato) scaldano il corpo nei giorni freddi, e Chifles (fettine di banana fritte ed essiccate in chips) o Patacones (frittelle di platani) ammazzano il tempo d’attesa delle corriere dirette a Manta o Salinas.

E quando il sole rincasa, piccole lampadine colorate fanno da torcia ai chioschi sistemati sulla spiaggia. Una musica bolereggiante avvolge notte insonni, passate a degustare Jugos de Piña o Maracuya (succo di ananas o meracuia). I più arditi hanno ancora il tempo di assaggiare un Quibolito (dessert di mais appallottolato in una foglia), mentre, incrociandosi in un avvicendamento surreale, i gabbiani tornano in terra ad asciugar le ali, e i pescatori si rioffrono al mare in cambio di una manciata di speranze.