Di Donatella Bernabò Silorata
Dalle parole ai fatti. Ieri sera ho partecipato ad una cena clandestina, al primo esperimento di ristorazione nomade nelle case. Ne avevo scritto su Repubblica e per dovere di cronaca dovevo testare ( ). Ho prenotato via mail. Non sapevo chi avrei trovato al mio tavolo. Non conoscevo la casa, ma avevo avuto qualche indizio, sufficiente a solleticare la mia curiosità.

E se sono qui a scriverne è perché l’esperimento non è solo riuscito, ma è stato divertente, stimolante: per le persone incontrate, per l’atmosfera, la casa, la cucina. Andiamo con ordine. La casa non è di quelle banali che scimmiottano stili e tendenze di magazine patinati, ma è un miscuglio-convivenza di pezzi anni Settanta, libri tanti, foto, disegni e quadri alle pareti delle epoche più diverse, qualche pezzo di antiquariato di famiglia, un magnifico parato Fornasetti, design storico e d’autore qua e là. Le persone. Un medico cardiochirurgo, un paio di avvocati, due professori universitari, un architetto, due ricercatori (uno di cose marine, l’altro sulle cellule staminali). Eravamo in dodici, io ne conoscevo un paio (mio marito come al solito conosceva parentele varie di questo e di quello). Prima di sederci al tavolo, la “voce narrante” della serata, Maria Luisa, ci ha letto un passo di Saramago sulla ricerca dell’isola sconosciuta. Illuminante. Il tema della serata è il viaggio, il nomadismo. Ci sediamo a tavola e non dopo aver mangiato un meraviglioso foie grois con bollicine per aperitivo. Ci presentiamo, cerco di memorizzare i nomi: Anna, Francesco, Gabriele, Gilda, Alessandra, Bruno, Roberto, Simona…La tavola ha piatti storici di Giò Ponti. Altro che ristorante. Dodici posti e dodici sedie (tra cui 2 Tulip originali) divere, che gusto. Sulla tavola c’è un menu di design he illustra gli oggetti di contorno alla cena: la lampada Luchef di Salvatore Martorana, la consolle di SuDesign di Paola Pisapia. Francesco, il cardiochirurgo, è simpatico e inizia il giro di presentazioni al tavolo: ciascuno si presenta e dice qualcosa di sé, tra gioco e ironia. Ma dove siamo, in un film di Verdone? Non ridevo così da mesi. Arriva l’antipasto, sarde alla beccafico: ragazzi, fantastiche. Lo chef è Tato Calì e nella vita fa il biologo. Il primo è uno spaghetto con pomodorini affumicati. Faccio il bis e noto che il prof. di architettura alla mia sinistra di cui non faccio il nome perché è subito riconoscibile ha le porzioni sempre più grandi. Anna ed io protestiamo. Ottimo il secondo: palamita su purea di patate con sale nero delle Hawaii e fagiolini sminuzzati con spezie. Il palato viaggia. I padroni di casa servono al tavolo e con loro ci sono un paio di amici. Lo chef ci spiega i piatti e davanti a noi prepara la crème brûlée. Nel calice il Ben Ryè di Donnafugata per finire. Il caffè viene servito nella collezione di tazzine di Raro design. E il conto? Non c’è. Ci viene consegnata una scheda per fare la ns valutazione e ognuno lascia quello che ritiene per pagare il costo della spesa. Giusto e corretto. Per chi non avesse capito lo spirito e la filosofia della serata le parole chiavi sono: condivisione, rete, curiosità e nomadismo, gioco e convivialità culturale. grazie Fabiana.