AA. VV. liberamente “assemblati” da Fabio Cimmino
intercettazioni_telefoniche1.gifAlla fine, il quesito è il solito. bisogna o no disdegnare e rigettare i vini ‘buoni e basta’, quei vini che per inseguire una maggiore piacevolezza solo sensoriale, fine a se stessa, tradiscono l’espressione della storia e della varietà tradizionale di un certo vino? Lasciamo perdere le fumosità e le sottigliezze del terroir, pur vitali, e affrontiamo il cuore del problema.Se il vino non può essere messo nello stesso mazzo della Coca Cola, allora non può ma soprattutto NON DEVE essere valutato con gli stessi medesimi parametri. Per degustatori semi-para-100% professionali come la maggior parte di noi, spesso viene dato per scontato ma così non è! Si è abbastanza d’accordo sull’argomento, ma poi alla fine si finiscono con il preferire i soliti vini aventi le solite medesime caratteristiche. La stragrande maggioranza dei produttori, che devono fare i conti con il mercato e non con le piccole nicchie poco o per nulla influenti, continuano per la loro strada, dell’omologazione del gusto. Loro, i produttori, producono per la gran massa dei consumatori, considerata significativa! E il vino è uno solo. Alla fine si trovano sempre più vini così e sempre meno vini ‘diversi’, originali, vera espressione di terroir e tradizione. Fino a quando si troveranno alternative altrettanto valide? Allora, dico io, sarebbe coerente pretendere (à la Don Quixote, s’intende) che le produzioni tradizionali, cioè senza vitigni cosJdetti ‘migliorativi’, sia che il disciplinare li ammetta già ufficialmente o meno, si differenziassero da quelle innovative dichiarandolo bello chiaro in etichetta ! Che si creasse, allora, per il Brunello, per il Barolo e il Barbaresco, per I’Amarone, per il Vino Nobile, per il Montepulciano d’Abruzzo, per il Taurasi,per il Falerno e per tutti gli altri grandi vini italiani una sottodenominazione di Doc, che accogliesse ‘sti mutanti genetici in una veste che si attagliasse loro comodamente. Si eviterebbe confusione per il consumatore e di inquinare l’immagine che i grandi vini tradizionali si sono cuciti in decenni di affinamento e sensibilità, magari non sempre eccelsamente realizzati, ma comunque sempre saldamente concepiti nel disegno basilare. Certi vini che escono da certe bottiglie con certe etichette che dicono Barolo , Docg/Brunello Docg/ Amarone della Valpolicella Doc Classico Superiore etc. e danno poi certe altre sensazioni una volta caduti dentro il bicchiere, mi ricordano un pò quei politici trasformisti, denigrati e ripudiati pubblicamente, dai loro stessi colleghi, per poi essere riabilitati, lontano dalle telecamere, dalla moderna ipocrisia partitocratica, riapparendo in schieramenti trasversali, gruppi misti, fino a giungere al paradosso di essere additati con un termine, oggi, di moda, ‘bipartisan’, che non si sa più se è un complimento o un offesa. La modernità di molti vini attuali si traduce in una ricerca della novità quasi come fine ultimo. Se non si vuole estrometterli dalle Denominazioni di riferimento (qualcuno lo fa già da solo, e si avvale di altre Doc, della Igt, 0 addirittura Vdt, ma si tratta di pochi casi isolati, rappresentati solo da chi può permetterselo). È forse il caso di creare e indicare una nuova sottodenominazione, magari enfatica e marketing oriented, che se, da un lato, potrà risultare un accrescitivo della denominazione principale a chi compra ammaliato dal nome del grande vino, Barolo, Brunello & Co., dall’altro possa servire da indicazione-avvertimento a chi invece, più smaliziato, cerca un prodotto con un carattere preciso, più puro se si vuole. In questo modo si metterebbero in condizione, anche le commissioni di Denominazione, di poter, finalmente, fare il loro lavoro. Non troverebbero più difficoltà nel riconoscere che un vino, paradossale per essere un Barolo da 100% nebbiolo, e quindi da non poter essere etichettato Barolo Docg ‘Tradizionale’, si dovrà chiamare Barolo Docg ‘Moderno’, o quello che vi pare, fate voi!
La classificazione alla bordolese o alla borgognona ce la possiamo sognare. C’è da rabbrividire a pensare a cosa potrebbe saltare fuori da un tentativo del genere fatto in Italia. Siamo in Italia, il paese dove ogni regola, per quanto buona e giusta (e magari utile a tutti) viene vissuta come un’insopportabile, odioso vincolo. Un ostacolo che i più scaltri scavalcano, o più spesso aggirano, senza chiedersi perchè sia lì, e tacciando di moralismo trombone e passatista chi prova a spiegarne, e difenderne, la funzione. Gli altri, quelli un po’ meno “scaltri”, li ammirano e li assumono a modelli. I pochi che non si associano, passano per fessi o romantici. Che un vino debba innanzitutto essere gradevole al naso e al palato è indubbio. È il punto di partenza. Però non basta, almeno fino a che sopravvivrà un minimo di rispetto per il consumatore. Se io vado in un’enoteca, e pago 40 euro per una bottiglia che porta in etichetta la dicitura ‘Amarone’, voglio bere un Amarone. Tradizionale, modernista, fatto più o meno bene, ma che sia un (sappia di) Amarone. Altrimenti è una truffa. Magari legalizzata, legittima, socialmente accettata, ma pur sempre una truffa. Se, in piena libertà, pago 40 euro per una bottiglia di Amarone, è perchè ho deciso di non spendere quegli stessi soldi per una bottiglia di Cabernet. Se poi dentro la bottiglia di Amarone ci ritrovo lo stesso Cabernet che ho consapevolmente rinunciato a comprare, sono stato raggirato, la mia volontà è stata tradita. È intellettualmente, e soprattutto eticamente, più onesto abolire una denominazione e vendere i vini come Vdt,che farne (attraverso i famigerati 15%) un contenitore vuoto, uno specchietto per le allodole. Un vino tipico dovrebbe aderire, con rigore assoluto, al disciplinare ed essere, quindi, strettamente legato a requisiti standard codificati e descrittori di tipicità rispettati. Un vino moderno dovrebbe,con lo stesso rigore, rivolgersi verso ciò che realizza la piacevolezza vista da ogni punto di vista, ed accontentare coloro che “non vogliono correre rischi” in nome della tipicità e della (bio)diversità, e pretendono da un bottiglia determinate caratteristiche organolettiche (standard, uno standard molto elevato, ma pur sempre uno standard), indipendentemente dalla provenienza,dall’annata,dal vitigno. A voi, dunque, la scelta a quale categoria appartenere. Se deciderete, però, per la prima, quella dei difensori estremi della tipicità, fate attenzione… quando la prossima volta vi troverete di fronte ad un Asprinio d’Aversa non vi lamentate per l’eccessiva acidità,quando berrete un Greco di Tufo non recriminate per la carenza di corpo o di profumi, quando vi troverete di fronte un allegra falanghina non condannatela per la sua semplicità, non ripudiate i tannini e l’austerità di un Taurasi, vi prego siate innanzitutto rispettosi di voi stessi e delle vostre scelte!!!

Postfazione

Non ce ne voglia il Garante della Privacy ma abbiamo deciso di pubblicare, prima di incorrere nell’imminente giro di vite del governo Berlusconi sulle intercettazioni, un’ interessante raccolta di contributi vari sulla tipicità,  frutto del certosino lavoro del nostro “spione” Fabio Cimmino: una piacevole alternativa alle tradizionali parole crociate per chi si riposa sotto l’ombrellone ovvero una fugace lettura ( Brunetta permettendo…) per chi si trova ancora, purtroppo per lui, in ufficio davanti ad un computer! (T.L.)