Di Franco De Luca

Sono giorni strani, giorni in cui le donne stanno cercando di scrollarsi di dosso un ritratto che le riduce ad “accessorio” e che ne offende la dignità, la capacità, l’onore. Questi ultimi giorni saranno ricordati per anni come un periodo di rottura, di una breccia in quel meccanismo che volta per volta ha contribuito inesorabilmente a consolidare, rendendola sempre più “regolare” e “ordinaria”,  un’immagine della donna  quale corredo estetico al potere sempre più machista. I media poi non fanno altro che rendere  “normale” quello che invece è insostenibile, provocando una dilagante maleducazione, per ridurne i cui effetti non basteranno lustri.

Direte “ma questo mo che vuole?”. No, non temete, non parlo di politica, non è il pulpito adatto, qui la politica non arriva se non quella del buon vivere, ma è che nel mondo che tanto amiamo ci sono così tante donne speciali che è impossibile non fare almeno un accostamento, seppur  tangente, a questa lotta e sfruttare ogni occasione per sposare la causa. In Campania, in particolare, abbiamo la fortuna di poter vantare professioniste della enogastronomia, a qualsiasi livello, che sono splendide personalità e che non riuscirebbero ad essere volgari nemmeno se lo volessero.

Una di queste è la co-protagonista di questo racconto, un’imprenditrice attiva e generosa, efficiente e decisa, che solo per un ingeneroso e fortuito caso si vede in questa occasione accostare alla più terrena polpetta. Parliamo di Maria Ida Avallone, anima (con il fratello Salvatore) dell’azienda Villa Matilde i cui vini si sono celebrati nella serata che vi racconto, nonché, da quasi un anno ormai, Delegata Campana dell’Associazione Nazionale Donne del Vino. A tutte loro è dedicata questa sentita premessa.

Veniamo dunque alla serata, è giovedì 10 febbraio e siamo di nuovo a “Taverna do’ Re” e dopo l’esperienza del polpo eccomi a raccontare della polpetta, ma dal polpo alla polpetta il passo non è breve come quello lessicale ed i piatti si arricchiscono di struttura necessitando di vini che siano nel contempo potenti e raffinati. Potenza ed eleganza, che bel binomio e quanto deve essere difficile costruire qualcosa che racchiuda insieme questi due elementi. Una vecchia pubblicità recitava “la potenza è nulla senza il controllo” ed io credo che questo concetto sposi bene le regole fondamentali della cucina. Il menù  dello Chef di casa, l’ormai mitico Francesco Parrella, prevedeva:

Bruschetta con lardo e pomodorino

Polpettine di mare in salse diverse

Sartù di riso e polpette al ragù

Polpettone in crosta con ripieno di friarielli e provolone del monaco

Sorpresa dello chef

Salame di cioccolato

In abbinamento ai vini:

Falerno del Massico bianco 2008

Cecubo 2007

Camarato 2004

L’amico Sommelier Giovanni Lamberti, vero patron dell’evento, ha composto bene gli abbinamenti. Ogni vino era associato a due portate per evidenziare e discutere le ragioni della scelta delle associazioni, qualcuno amabilmente si lamentava sostenendo (legittimamente): “ma se partiamo con questa falanghina da 13% (e diciamo pure qualcosa in più) dove arriveremo?”. E arriveremo dove dobbiamo arrivare, che ci possiamo fare, con le polpette di mare su salse così consistenti (pesto e crema di melanzana) non possiamo metterci un vino più delicato, segneremmo la sua morte. Del resto il vino ci piace proprio tanto ed esalta il piatto oltre ad esaltare chi lo beve, l’agrume al naso si sente netto e dolce, ricorda le caramelle a forma di spicchio di limone (o arancio, le ricordate?) ed al gusto accarezza sinuosamente la polpettina di gamberi, che è stata sicuramente la più entusiasmante delle tre. Questo Falerno ha più di due anni ma si presenta ancora giovane, ulteriore dimostrazione che i bianchi campani se lavorati bene possono essere più longevi di tanti rossi.

Anni fa, il quando cominciavo ad innamorarmi di questo mondo, determinante fu l’incontro con una particolare etichetta che mi fu presentata da un amico casertano. Questo vino era il Cecubo. Quando lo raccontai al relatore alla lezione del corso AIS per sommelier dissi che avevo scoperto la gradevolezza dell’”Abbuono” ed il relatore sbiancò perché gli avevo parlato di un vitigno che non conosceva. In realtà non lo conosceva nessuno perché non esisteva, si trattava dell’”Abbuoto”, rarissima uva  gradita dagli antichi romani, ma il mio inconscio aveva modificato il nome in modo assolutamente non casuale.

Il Cecubo allora come adesso mi colpisce sempre. In realtà l’Abbuoto è presente solo in parte insieme ad altre uve autoctone e ricercate ma per lo più si tratta di Primitivo, ed è secondo me un classico rosso da pasto, potente ma mai opulento, deciso ma anche raffinato, ottimo da abbinare anche a primi piatti dotati di buona consistenza. Tuttavia, nella nostra serata, essendo dotato di una discreta acidità meno bene si abbinava alla polpetta di carne al ragù (forse anche perché nel piatto vi era eccessivo sugo di pomodoro) mentre invece era eccellente con il polpettone avvolto nella pasta sfoglia dove invece prevaleva nettamente la tendenza dolce.

Tra un abbinamento e un altro, Maria Ida ci ha raccontato con la grazia che la caratterizza le scelte di cantina, lo sforzo per lavorare vitigni difficili, l’impegno sempre elevato che deve sostenere chi vuol avere a che fare col vino. Dietro il suo garbo si intravede tutta la forza delle donne che conoscono molto bene questa realtà e che si impegnano al massimo per perseguire il proprio ideale professionale. Io e Massimo Florio (che ha condiviso con me le degustazioni) avevamo davvero poco da aggiungere per quanto esaustivo è stato il suo racconto e ci siamo limitati a sorseggiare beati ed a mostrare quanto si possa scoprire in un bicchiere quando nel bicchiere c’è la qualità.

Il pasto si è chiuso con il Camarato. Non mi piace raccontare di un vino quando non si ha davanti, è un’azione innaturale. Tuttavia, nell’attesa che la tecnologia venga in soccorso a chi decide di raccontare una degustazione e descrivere profumi e sapori su un blog, faccio un’eccezione per dire che non capita spesso di essere davanti ad un vino tanto coeso, compatto e armonico… tante sono le sfumature che si percepiscono ad un volume contenuto. Come molti grandi vini, appena versato non esplode in intensità nel bicchiere, poi pian piano viene fuori con note eteree che trascinano la frutta a bacca rossa che per questo ci appare sotto spirito, poi subentrano leggere note erbacee, poi si susseguono le spezie e così via…  ammaliando sempre di più chi ha di fronte, come un saggio che esalta la platea coi suoi racconti lentamente e senza alzare mai troppo la voce, e questo solo i saggi se lo possono permettere.

Il menù recitava “Sorpresa dello chef”, io che da studente per arrotondare frequentavo i fotografi da matrimonio temevo fosse la pasta e fagioli con le cozze ma per fortuna nostra e per sfortuna sua era un maialino al forno, tanto triste a guardare quanto buono a mangiare… Quando lo chef Parrella  l’ha mostrato alla platea, si sono sollevati tanti mugugni di dispiacere per il destino del piccolino, qualcuno si sentiva addirittura svenire dalla pena, ma cinque minuti dopo, nonostante fossimo a fine pasto, sentivamo addentare anche i piatti. Diciamo che si è trattato di uno strano momento di commiserazione per la sfortunata creatura solo che le lacrime invece di scendere dagli occhi si condensavano direttamente in bocca. Contraddizioni del nostro tempo.

Concludo ringraziando il nostro sommelier Giovanni Lamberti perché, coerentemente con la linea della nostra delegazione, ha saputo creare qualcosa di nuovo: un evento dove si respira l’agio, senza eccessiva etichetta ma che conserva nel contempo un sapore comunque didattico, dove i commensali possono portare a casa oltre a qualche etto in più, anche nuove idee e pillole di conoscenza. Viva le manifestazioni dove si fa cultura sorridendo e dove, soprattutto, si può parlare a platee nuove. Chi vuole occuparsi di comunicazione del vino deve capire che questa è la strada da percorrere, che gli eventi non possono e non devono ridursi a luoghi d’incontro tra conoscenti o mere occasioni di autocelebrazione. Dobbiamo arrivare dove non ci siamo ancora e spiegare che la buona qualità è a portata di mano e, soprattutto, a portata di tutti.