Di Maria Grazia Narciso

Una di quelle giornate di inverno terse e assolate, quando può succedere solo qualcosa di bello mi porta a Villa Diamante in contrada Toppole in quel di Montefredane, a circa 430 mt slm, quella porzione dell’areale della Docg dove il Fiano di Avellino è più verticale, fiero della sua spalla acida, che solo la sosta sur lies  ha imparato ad ammorbidire. Raggiungo Tommaso Luongo, il Delegato AIS Napoli, Marina Alaimo, Sommelier e Food and Wine Writer, organizzatrice dell’ happening e gli altri ospiti, Giovanni Starace, Sommelier del Grand Hotel Angiolieri di Vico Equense, Francesco Liberato, Sommelier del Relais Blu di Massa Lubrense, le giornaliste Antonella Amodio e Lucia Migliaccio, Mario Vitiello Sommelier del “Il Comandante” a Napoli.

Ad accoglierci Diamante Renna e Serena Gaita, le padrone di casa, conduttrici dell’azienda.

Con loro subito in vigna, in quella  “Vigna della Congregazione”, chiamata così perché un tempo appartenuta alla Chiesa, un fazzoletto di 2 ettari con viti dai 15 ai 30 anni di età, condotte in regime biologico, in cui si esprime tutta la visione, la tecnica, la tenacia e la poesia di una storia d’amore,  quella di Diamante ed Antoine fatta di distanza, quando l’Irpinia era terra di emigranti, (lei negli States e lui in Belgio), di attesa ma di un legame indissolubile.

Serena concentra in sé tutto questo amore, che trasfonde in ogni singola pianta, in Leilo il dolcissimo ed esuberante trovatello all black che mi salta addosso quando arrivo e del quale mi innamoro a prima vista e verso i suoi ospiti che accompagna con voce calma e riflessiva lungo i filari a spalliera. Serena, che discuterà la tesi in Enologia il prossimo autunno, ha un mentore di eccezione, l’enologo Vincenzo Mercurio, che dal 2016 guida le scelte dell’azienda in vigna e in cantina. Nelle conversazioni di oggi potente la presenza di Antoine Gaita, che purtroppo non c’è più e che mi dolgo di non aver conosciuto, ma che leggo in Diamante, donna solare, rassicurante, determinata custode di confidenze e progetti, in lei il DNA del brand.

Con Tommaso ci fermiamo ad ammirare i disegni e le geometrie che le zolle (le “toppole”), miste di argilla e marna calcarea, compongono nel terreno e abbassiamo la voce per “sentire” le sensazioni dei piedi sulla superficie soffice e resiliente (N.B. il mio delegato è differente). Serena focalizza la nostra attenzione sui germogli, descrive minuziosamente le scelte di potatura, le strategie per combattere il nemico del Fiano, l’oidio, accoglie le nostre curiosità, dapprima con timidezza, poi da autentica protagonista di un progetto grande e ambizioso, già chiaro nella sua testa. Il sole fa da sé.

Diamante e Serena hanno allestito un grande  tavolo per la degustazione e a noi arriva il calore della casa, del camino, del sole dalle finestre. Guardo le vigne attraverso il calice che ho centrato in trasparenza nella cornice della finestra, a mo’ di lente di ingrandimento e mi appaiono distintamente nel bicchiere  gli elementi là fuori: vegetazione, suolo, luce.  Cos’è il terroir se non questo? E’ quasi un’ epifania, di Joyceiana memoria. Mi commuovo ma nessuno lo sa.

Sulla tovaglietta in ordine la verticale storica di Fiano di Avellino “Vigna della Congregazione”: 2019, 2018, 2017, 2016, 2015. Le verticali hanno l’ingrato compito della comparazione che non rende mai giustizia a nessuno dei protagonisti in campo. Ma se riesci a sospendere il giudizio e a goderti la storia che ciascun millesimo ti vuole dire, prepotentemente a volte, altre timidamente, e che è la sua, unica e irripetibile, il momento è magico.

La 2019 mi conquista per l’irruenza e la vivacità, vezzi di gioventù che la longevità del Fiano di queste parti trasformerà nella versione migliore di sé, e questa cosa mi restituisce il senso della vita, motivo per il quale la dichiaro la mia scelta di oggi. La 2015 cattura alla prima olfazione ma poi si spegne in bocca, la 2017 ci mette un po’ a sistemarsi nel calice, ma poi si esprime in tutto il suo potenziale, la 2016 è composta, si dichiara subito e rimane fedele al suo ampio ventaglio aromatico, alla sua struttura e persistenza fino a calice vuoto, la 2018 molto sfortunata, tradita dal sughero per due volte e la terza probabilmente  anche da se stessa.

Ma che dire della 2009 aperta alla cieca? Un regalo di casa Gaita, una sintesi, se fosse possibile, pluridimensionale del terroir, dove complessità, struttura e persistenza costituiscono il nerbo attorno al quale danzano in piena armonia profumi fruttati e floreali, un corredo aromatico ampio ed elegante, accelerazioni minerali, speziate, sapide.

Diamante ha preparato con le sue mani la gustosissima frittata di spaghetti, la pizza rustica alle erbe che mi ricorda il calzone di sponsali pugliese e la delicata quiche di carciofi per aiutarci a sostenere la batteria dei rossi.  L’Irpinia Aglianico Doc Pater Nobilis 2006 in bottiglia borgognotta, che gli è valsa l’esclusione dalla Docg, i Taurasi Riserva 2007 e 2009 della stessa etichetta e il Taurasi Libero Pensiero 2008. E sul libero pensiero di casa Gaita c’è tanto da imparare.

Il vento del dibattito soffiava già durante la verticale bianca, in merito ai vantaggi e gli svantaggi dell’ introduzione nel 2020 della categoria “Riserva” nel disciplinare del Fiano di Avellino (ma anche del Greco di Tufo). A partire dall’annata 2019, infatti, e con un tempo di affinamento non inferiore ai dodici mesi, i produttori potranno usare il termine “Riserva” per i due bianchi irpini.  Il fuego si è riacceso intorno all’Aglianico, e nello specifico al ruolo del vitigno vs quello del terroir.  I pareri, figli delle coordinate anagrafiche, delle scuole di pensiero, delle proprie convinzioni e formazioni si sono avvicendati garbatamente ma convintamente e consideravo nel registrarli quanto il vino sia in grado di unire e dividere allo stesso tempo, di accendere o di quietare gli animi. Ma quanta bellezza…

Questo prestigioso tavolo composto da Marina dice di quanto il sogno identitario di Antoine Gaita, cominciato nel 1996, prenda forma ogni giorno di più e basta ascoltare e guardare Serena per comprendere che si spingerà ben oltre le aspettative. A noi il ruolo di ambassador.

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